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Libertà di stampare o LIBERTà di STAMPA ?
La libertà di stampa è - sotto tutte le latitudini - quella più difficile da regolamentare per il suo particolare carattere di vera e propria “spia” della reale situazione democratica di un paese.
E' risaputo infatti che dove la democrazia non, esiste o è ristretta in ambiti innaturali, la è assente la libertà di stampa. Così come quando un paese democratico subisce l'onta sciagurata di un dittatore o di
un regime autoritario, il primo provvedimento dell'antidemocrazia, di qualsiasi
genere o colore,
è invariabilmente quella di abolire o limitare fortemente la libertà di espressione. (...)
Per quanto concerne in particolare l'Italia, la realtà presente è tale che si potrebbe addirittura affermare che esiste, in concreto, la libertà di stampare, piuttosto che quella di stampa e di espressione. Al di là infatti delle perfette e liberalissime affermazioni di cui all'art.21 della
Costituzione Repubblicana, vigono leggi ordinarie che, se proprio non
contraddicono il dettato costituzionale, certo danno di esso un'interpretazione
alquanto ristretta o, peggio, di comodo.
E' il caso della legge 3 febbraio 1963, n.69 che attualmente disciplina la
professione di giornalista essenzialmente su tre criteri:
1) formazione di un “Ordine professionale, riservato agli iscritti ad appositi albi, ai quali
soltanto
è consentito usare il titolo ed esercitare la professione di giornalista con la
protezione degli articoli 348 e 498 del codice penale;
2) distinzione, in seno all'unico Ordine professionale, tra giornalisti “professionisti”, definiti come ”coloro che esercitano in modo, e giornalisti “pubblicisti”, definiti come “coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre
professioni od impieghi
”, con attribuzione prefissata ai primi di maggiori diritti in campo
professionale e di una assoluta preponderanza in seno agli organi direttivi
dell'Ordine, indipendentemente da ogni rapporto proporzionale tra le due
categorie;
3) determinazione di un unico e ristretto canale per l'iscrizione all'elenco
professionisti dell'albo attraverso una
“pratica” professionale e un successivo esame, che subordinano sostanzialmente
l'immissione di nuovi elementi alla volont
à dei maggiori editori e direttori e ad un successivo provvedimento di
cooptazione da parte della categoria; mentre l'iscrizione all'elenco
pubblicisti avviene per pura e semplice cooptazione, secondo criteri ancora pi
ù discrezionali.
Nel complesso, si tratta di una disciplina a carattere “chiuso”, tendente cioè a restringere quanto più possibile l'esercizio della professione giornalistica mediante un doppio
barrage, che da un lato tiene fuori dall'ordine coloro che non riescono a farsi
cooptare e dall'altro confina la maggior parte dei cooptati nell'elenco dei
“pubblicisti”, escludendoli in pratica da ogni partecipazione attiva alla vita degli
organismi professionali.
Nonostante che sia stata varata 15 anni dopo l'entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, la normativa in questione sembra ignorare la lettera
e lo spirito della nostra Carta fondamentale, e in particolare dell'art.21, che
inibisce al legislatore qualsiasi inibizione al diritto di tutti i cittadini di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione, salvo il caso di delitti o di manifestazioni
contrarie al buon costume.
La normativa in questione, inoltre, sembra ignorare l'impegno assunto dal
Costituente (articoli 35 segg.) di tutelare
“il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, fornendo ampio riconoscimento, in particolare, a quelle forme di attività che facilitano o rendono in pratica possibile, attraverso la libera
circolazione delle idee, l'esercizio dei fondamentali diritti dell'uomo e del
cittadino, e il pieno, reale sviluppo dell'assetto democratico.
La disciplina vigente è invece singolarmente vicina a quella corporativistica del periodo fascista,
quando il diritto di collaborare ai giornali era limitato ai soci del Sindacato
nazionale fascista dei giornalisti, giuridicamente riconosciuto; soci suddivisi
appunto nelle due categorie dei
“professionisti” (quelli ai quali gli editori riconoscevano il contratto di lavoro
giornalistico) e dei
“pubblicisti” (gli altri).
Non a caso, del resto, le attuali strutture organizzative del giornalismo
italiano derivano direttamente da quel Sindacato fascista: la Federazione
nazionale della stampa italiana, per essergli puramente e semplicemente
succeduta dopo la caduta del fascismo, come unica organizzazione sindacale e
associativa dei giornalisti, i quali sono stati cos
ì sottratti alla libera e vivificante dialettica del sindacalismo democratico;
l'Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani, per essere ancora
quello di prima, riservato esclusivamente ai giornalisti,
“professionisti” con contratto di lavoro subordinato (per cui i giornalisti “pubblicisti” e i “professionisti” liberi collaboratori sono forse gli unici lavoratori in Italia rimasti privi di
un'organica tutela assistenziale e previdenziale, in spregio all'art. 38 della
Costituzione); l'Ordine dei giornalisti, per essersi sostituito in periodo
democratico alla preesistente Commissione unica per la tenuta dell'albo dei
giornalisti, assorbendo per
ò in simbiosi con la FNSI, e senza una netta delimitazione dei rispettivi compiti
e responsabilit
à - il carattere monopolistico del Sindacato unico fascista.
Tutti questi organismi sono fondati su una superata concezione aristocratica
della funzione giornalistica, che appare poi particolarmente anacronistica in
un momento come l'attuale, in cui alla crescente domanda di informazione
proveniente dalla societ
à corrisponde una imperiosa espansione non solo della stampa periodica, ma anche
e soprattutto dei moderni strumenti d'informazione radio-televisiva -
fotografica, cinematografica, radiofonica, televisiva - che danno dimensioni
del tutto nuove alla funzione giornalistica, sempre pi
ù orientata verso forme di ampia partecipazione popolare e di integrazione a
tutti i livelli di vita della comunit
à nazionale.
Da questi semplici accenni risulta evidente come la semplice esistenza di questa
legge sia tale da vanificare in pratica la lettera e lo spirito della
Costituzione, poich
é è facile immaginare come il rinchiudere in una gabbia di norme, del genere
citato, tutti gli operatori dell'informazione sia manovra atta a facilitare
qualsiasi forma di controllo sulla loro attivit
à con buona pace della libertà di espressione che, sic stantibus rebus - è destinata a rimanere pura astrazione, sogno proibito, utopia.
Ma la legge 3 febbraio 1963, n.69, non è la sola a rendere inoperante l'articolo 21 della Costituzione (...).
Soprattutto, vi sono - ancora in vigore - gli articoli-capestro del Codice Rocco
che non a caso, e certamente a ragione, vengono definiti l'antidiritto per
eccellenza. (...)
Permanendo però l'attuale stato di “libertà vigilata” per la stampa e l'informazione, nel nostro paese è assolutamente necessario, per chiunque operi nel settore o si accinga a farlo,
conoscere bene leggi, decreti e normative al fine di non incorrere - come
purtroppo avviene, con grave pregiudizio degli interessati, abbastanza spesso -
nell'errore di credersi libero di esprimersi secondo l'articolo 21 della
Costituzione o, addirittura, secondo quanto stabilito dall'art.2 della pur
iniqua legge 69-'63. (...)
di R. Russo-Fiorillo e Q. Protopapa
dalla prefazione del volume “La stampa e le leggi” - Romana Editrice, 1978
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